Per non rendere inutile la fatica di diventare sé stessi

a cura di Maria Pia Fontana

 

linutile-faticaIl saggio L’inutile fatica, soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo a cura di S.Cavalieri, C.Lo Piccolo e G.Ruvolo (ed. Mimesis, 2016) affronta il tema dell’autorealizzazione attraverso un dialogo tra sapere filosofico, psicologico ed antropologico e questa prospettiva multifocale è il principale merito di quest’opera a più voci, che consente di dare ossigeno a pensieri nuovi superando le strettoie in cui sfociano i saperi specialistici e settoriali o l’autoreferenzialità degli approcci teorici. Nella Prefazione S.Federico esplicita il debito di riconoscenza che i vari contributi hanno nei confronti di alcuni autori, abili nello svelare la correlazione tra variabili psicologiche e fenomeni sociali. “Dalla “Fatica di essere sé stessi” (Ehrenberg, 1999) al “Dopo futuro” (Berardi, 2013), fino alla rilettura di “Senza padri” (Godani, 2014) ripassando dall’Alcibiade di Platone” (pag. 16).
Ad eccezione del grande filosofo classico, tutti questi autori hanno evidenziato come i vissuti psicopatologici non nascano più da un sentimento di colpa, ma da sensazioni di inadeguatezza e di vergogna instillate da un clima culturale che enfatizza le richieste e le aspettative individuali come anche gli standard di accettabilità e di successo sociale. La sfida, quindi, diviene la ricerca di alternative al pensiero dominante, ossia la capacità di immaginare “ad uscire dallo stallo determinato dall’imperativo sii migliore (…) tramite la possibilità di accettare la propria finitezza e non perseguire solo la strada dei risultati, ma quella della condivisione e della cura dei legami. Un antidoto che provi a ridimensionare un anelito di massa alla grandiosità narcisistica fomentato dall’ideologia performativo/consumistica del liberismo” (pag. 16). Nella nostra società della prestazione, costruita sul verbo modale “potere” e non su quello “dovere”, l’imperativo di essere sé stessi e di realizzare i propri talenti passa attraverso l’esibizione e la dimostrazione di qualità personali come l’autonomia, la libertà assoluta, la flessibilità, l’eccellenza intellettuale ed estetica, la competitività e l’auto-imprenditorialità. conformismo-mediatico
Considerato, tuttavia, che tali standard restano quasi sempre preclusi ed irraggiungibili per molti, e che il processo di autoaffermazione viene attribuito all’esclusiva responsabilità del singolo, trascurando il ruolo castrante o inibente delle variabili di contesto, anche perché la doxa dominante concepisce il fallimento esistenziale solo come devianza o psicopatologia, la depressione diviene un approdo quasi obbligato. Ecco perché pur nel patinato mondo delle declamate felicità prêt-à-porter e della fiaba del self made man che scala la piramide sociale suggellando i valori dell’avere e dell’apparire, dilagano i casi di malessere che sfociano nel disagio psicologico e nella psicoterapia. Le riflessioni proposte non nascono quindi dalla speculazione astratta sul processo di individualizzazione, né interrogano in termini meramente filosofici il compito di realizzare la propria identità, ma piuttosto traggono spunto dall’esigenza pratica di offrire aiuto a chi patisce il dramma annunciato di non riuscire ad aderire ai prescritti copioni esistenziali. I vari autori del saggio fanno quindi emergere delle regolarità sociali nella diffusa sofferenza psicologica e nelle dilaganti depressioni del nostro tempo, evidenziando come esse non discendano solo dalle specificità biografiche e soggettive, ma trovino ancoraggio nelle pieghe di una pervasiva e spietata crisi socio-economica e nel modello ideologico neoliberista. omologazione“Ci muoviamo in uno spazio instabile – scrive S. Cavaleri –  quello in cui sofferenze individuali e contraddizioni sociali vivono di continui rimandi. E’ uno spazio difficile da indagare: un approccio alla cura rischia di considerare inevitabili le crudeltà del mondo, mentre la sola analisi macroeconomica può rendere distratti di fronte alla sofferenza degli individui (pag. 37)” . Questa dimensione friabile in cui ci muoviamo, dove tutto è reso instabile e precario, dal lavoro agli affetti, dove la competizione sfrenata acuisce il conflitto sociale e dove tutta l’esistenza è asservita alle logiche del consumo e del mercato, assomiglia ad  un grattacielo tremolante costruito con materiale di risulta. Non solo manca di fondamenta in grado di assicurare serenità e reale benessere (welfare) ai suoi abitanti, ma sorge sul macabro cimitero della politica, intesa come capacità di sortire insieme dai problemi, per usare un’espressione cara a Don Milani. Infatti, è ormai demandata al singolo la ricerca di vie di fuga dalla propria angoscia esistenziale, sia che si tratti di disoccupazione, sia che si tratti di malattia, precarietà o solitudine, senza che la generale sofferenza diventi oggetto di un’azione collettiva né occasione di mutua solidarietà. In questo scenario si comprende come sia inutile e sovrumana la fatica di essere sé stessi se si appiattisce sul diktat del modello culturale egemone ed asseconda le abnormi aspettative che gravano sul singolo, oppure se si scontra con le ingiunzioni e con i veti di una società che propugna l’autenticità, ma che nei fatti costringe verso forme di spietata omologazione.
Neppure chi sceglie il servizio al prossimo è esente dal rischio di essere inquinato e corrotto dalle logiche di mercato, come dimostra il romanzo I Buoni di Luca Rastello, richiamato da Cavalieri, che ben esemplifica i rischi di appiattimento sulle logiche del potere economico e politico anche di chi si auto-investe del compito di emendare la società dalle ingiustizie sociali. Le associazioni di volontariato e il vasto mondo del privato sociale conservano quindi al loro interno delle profonde contraddizioni e una di queste è data dall’affievolimento della spinta motivazionale o dalla burocraticizzazione della carica ideale, che può anche atrofizzarsi fino al punto di divenire strumento di un business. Non a caso Rastello fa dire ad uno dei protagonisti del suo disincantato romanzo “Abbiamo bisogno di convivere con il male, fingendo di combatterlo. Abbiamo bisogno di accettare un mondo inaccettabile che ci stritola, e abbiamo bisogno di abitarlo sotto anestesia”.
Ma se da un lato il welfare mostra le sue zone d’ombra, dall’altro l’operatore sociale, ambigua espressione che già sottende una marginalità del suo ruolo professionale (tutte le occupazioni  sono infatti “lavori sociali”) si vede esposto ad una crisi di senso per l’incapacità di disporre di strumenti minimi tali da dare credibilità al suo mandato, proprio a causa dello smantellamento dell’impalcatura che reggeva i diritti e le politiche sociali. Il rosario laico con il quale l’operatore ha sensibilizzato al rispetto delle regole, alla fiducia in sé stessi, alla partecipazione e alla responsabilità, è divenuto quindi “una preghiera insostenibile, perché smentita dietro le quinte”, ed egli “rischia di colludere con il cinismo e con il disincanto di chi ha di fronte” (S. Laffi, 2011).   
A fronte di questo amaro stato di cose, il saggio non si arrende allo sconforto e non si chiude alla speranza. La proposta è quella di ripartire dal proprio posizionamento nella trama di relazioni, condizionamenti e conflitti del nostro tempo, cercando antidoti alla depressione che è figlia del narcisismo patologico. In questo senso, appare preziosa l’indicazione di G.Ruvolo di recuperare la lezione che Socrate tenta di impartire ad Alcibiade nel dialogo scritto da Platone all’inizio del IV secolo A.C. Ad un giovane rampante e carrierista, che cerca di sostituire la gratificazione ottenuta grazie alla sua avvenenza fisica con quella assicurata dal potere politico, Socrate propone la conoscenza di sé, come via maestra per prendersi cura di sé mantenendosi però all’interno di un rapporto circolare con la polis. amar-a-si-mesmo“La conoscenza e la cura di sé sono il presupposto per la conoscenza e la cura degli altri, la virtù del singolo rimanda alla virtù politica e alla buona amministrazione delle cose della Polis (pag. 64)”. E anche se Alcibiade non farà tesoro di questo insegnamento, perché anteporrà sempre la sua personale realizzazione alla crescita della Polis, l’invito platonico di saldare i propri bisogni narcisistici con il bene comune, considerando sempre gli altri come un fine e non come un mezzo, resta una sollecitazione cogente per ciascuno di noi sebbene si mostri profondamente controcorrente. 
“Non si tratta quindi di stigmatizzare l’individualità, le spinte che mobilitano il soggetto a realizzarsi (narcisismo sano) bensì di articolarle in un orizzonte che non perda mai di vista l’altro, gli altri, la Polis (pag. 70)”. E in questa pedagogia tesa alla riscoperta degli altri a poco serve il codice paterno della legge e forse più utile sarebbe, come suggerisce Franco Berardi nel suo intervento conclusivo, recuperare l’affettività del codice materno, che ci educa alla fraternità.

A libro chiuso mi tornano in mente tante storie di malessere personale che si intrecciano con il disagio di chi dovrebbe essere depositario della scienza e della tecnica di curare. Oggi la fatica di resistere alle pressioni del nostro tempo, coltivando nicchie di pensiero libero e ricercando modalità espressive e di realizzazione personale alternative, è divenuta la fatica quasi sovrumana che accomuna i professionisti dell’aiuto come gli aiutati. E in questo sconfinamento di ruoli, che demolisce ogni residuo piedistallo di presunzione dei cosiddetti esperti, forse potremmo trovare uno stimolo a considerarci autenticamente fratelli per ripartire a costruire la casa comune, mentre il lavoro di aiuto diviene sempre più un’impresa culturale volta ad aprire orizzonti di consapevolezza, di speranza e di pensiero alternativo mantenendo desta la lucidità.

 

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Scritto daMaria Pia Fontana

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