Narcisismo social e gli specchi neri della contemporaneità

di Maria Pia Fontana

 

Un destino beffardo segna il mito di Narciso. Più diventa attuale, per la progressiva generalizzazione dell’identità narcisistica, e più resta inascoltato ed incompreso nel suo significato profondo.
Come ci racconta Ovidio, mentre la ninfa Eco si strugge nel suo amore non corrisposto verso Narciso, quest’ultimo, chiuso nel culto ossessivo della propria immagine, si consuma nel tentativo disperato di afferrare il suo riflesso sul fiume, arrivando al punto di morire per annegamento o, secondo altre versioni del mito, decidendo di uccidersi trafiggendo il petto con una spada. In ogni caso, dalle sue spoglie nasce un fiore solo e bello, che porta il suo nome.
Morto per eccesso di autocontemplazione, nei secoli Narciso è divenuto l’emblema delle vittime che mietono vittime, perché storditi dall’incantamento autoreferenziale per la propria bellezza, oppure abbacinati dalla propria cultura, dal proprio prestigio sociale e potere, dalla propria intelligenza, persino dalla propria bontà o superiorità morale. Infatti, il Narciso di turno si presenta in varie versioni, tutte accomunate dal convincimento del presunto carattere eccezionale della propria persona. La conseguenza è che il narcisista ricerca negli altri conferme e, qualora mancasse tale riconoscimento, si sentirà vittima delle circostanze o dell’invidia altrui.  narciso
Alla patologia di Narciso, peraltro, corrisponde in modo speculare la malattia di Eco, essendo l’uno emblema “di chi incarna l’identità assoluta che non conosce l’alterità” (cioè il diverso da sé) così come l’altra è il prototipo “dell’alterità assoluta che non conosce l’identità”[1] (cioè non riesce a sviluppare un’adeguata autoconsapevolezza e sicurezza personale essendo appiattita sull’altro). Ecco perché le vittime designate dei narcisisti sono di norma le persone con una carente autostima ed inclini alla dipendenza affettiva. Il rifiuto o la squalifica del narcisista assumono in questa cornice il significato di un colpo mortale e di un’angoscia inaccettabile che annienta l’intera personalità.
Il narcisismo ovviamente non è stato un’invenzione di Ovidio ed è sempre esistito come deriva dell’amor proprio, e, pur non trovando espressa menzioni nei vizi capitali, può considerarsi un parente stretto della superbia e una versione strutturata e pericolosa della vanità. Nei suoi Pensieri, pubblicati postumi nel 1669, Blaise Pascal con lucida consapevolezza e con straordinario acume, scrive “La vanità è così radicata nel cuore dell’uomo che un soldato, un manovale, un cuoco, un facchino si vanta e vuole avere i suoi ammiratori: anche i filosofi ne vogliono; e quelli che scrivono contro la gloria vogliono la gloria d’aver scritto bene; e quelli che li leggono vogliono la gloria di averli letti; e forse anch’io che scrivo queste cose ne ho voglia; e forse quelli che mi leggeranno….”. 
PavoneTuttavia, per lunghi secoli, una linea pedagogica influenzata dalla morale cristiana, tesa a calmierare gli eccessi dell’io e a dominare le sue passioni attraverso l’assidua pratica della rinuncia e della moderazione, funse da diga di contenimento per il narcisismo, sebbene con esiti talvolta ambivalenti. F.Nietzsche, a tal riguardo, sosteneva che un eccesso di morigeratezza e di repressione producesse l’effetto paradossale di far debordare i desideri tramutandoli in perversioni e che occorresse piuttosto governare se stessi tramutando le proprie passioni in gioia per sé e per gli altri[2].
Con la modernità cambia il modo di considerare lo smodato amore per sé e il disturbo narcisistico viene guardato con maggiore tolleranza. Non è un caso, infatti, che esso abbia rischiato di sparire dall’ultima versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM V) una sorta di “bibbia della psichiatria”, anche per la tendenza di forti gruppi di categoria a prediligere la base neurobiologica delle patologie[3]. Christopher Lasch fu probabilmente tra i primi a prevedere una maggiore accondiscendenza sociale verso il narcisismo in quanto si rese conto precocemente che questo disturbo non era più solamente un tratto della psicopatologia individuale, così come identificato da  S.Freud, ma era divenuto una diffusa tendenza sociale. Nel suo saggio, La cultura del narcisismo (1979) Lasch identificò l’intreccio perverso tra il narcisismo e le caratteristiche della società dei consumi, come ad esempio l’accentuato individualismo, l’edonismo, l’incapacità di coltivare relazioni stabili e profonde, l’ossessione per la celebrità, la ricerca della visibilità a tutti i costi, la crisi della famiglia e del modello tradizionale di autorità e la fede incondizionata verso la scienza e la tecnologia.
L’avvento dei media digitali e l’interazione attraverso i social network ha riproposto in forma nuova il rapporto tra identità, alterità e autocontemplazione. Da tempo la sociologia, la psicologia e la pedagogia, ma anche la riflessione giuridica più attenta all’evoluzione sociale[4], si interrogano sui tratti costitutivi dell’identità digitale. Possiamo definire l’identità virtuale come “il sistema complesso di immagini, video, informazioni scritte che l’internauta ha pubblicato in un social network per rappresentarsi come individuo digitale unico e inconfondibile” (Pisano, Cadau, 2013)[5]. L’identità virtuale è un modo attraverso cui si esprime l’essere di una persona. virtua
L’interazione digitale ha fornito nuovi setting e nuovi “abiti scenici” per la rappresentazione del Self che si aggiungono a quelli tradizionali caratterizzati dalla relazione diretta e fisica. I palcoscenici virtuali “si nutrono non solo di parole, ma anche di immagini, colori, suoni, collegamenti intertestuali (link) e feedback sociali (…). Ciò che fa la differenza tra i nuovi media e quelli precedenti è proprio la capacità di fondere canali comunicativi diversi incentivando il protagonismo dei fruitori, l’autorialità dei contenuti e la costruzione condivisa di significati”[6].
Il primo biglietto da visita identitario è costituito dalla propria immagine di profilo, rivelatrice della strategia di autorappresentazione adottata dal soggetto. Secondo P.C. Rivoltella[7] possiamo identificare due fondamentali scelte strategiche a seconda che l’individuo preferisca farsi riconoscere (identity performance) oppure di mascherarsi (identity erasure). In entrambi i casi si possono adottare diverse tipologie e modalità di rappresentazione identitaria (referenziale, contestuale e poetica) distinte anche per il grado di narcisismo. In generale, si ritiene più elevato il livello di autocompiacimento di chi decide di manifestare il suo volto rispetto a chi lo maschera, specie se adotta la modalità “poetica” (es. foto artistiche, pose artefatte, particolari del volto enfatizzati, ecc.) che tende a rimarcare le qualità eccezionali del sé. Tuttavia, anche il come il soggetto utilizza la propria immagine all’interno del network una volta costituito il proprio profilo, o il grado di frequenza con cui egli cambia o modifica la propria foto/icona di profilo andrebbero considerati come un possibile indicatore di narcisismo (per l’effetto di sovraesposizione e per l’implicita richiesta di conferme che tale modifica implica, specie se agita in modo ricorrente).
In questo scenario, in cui i feedback che il soggetto riceve sui social si sedimentano nel tempo divenendo la traccia indelebile della co-costruzione condivisa della sua identità, lo smartphone, considerato come appendice e protesi personale capace di catturare immagini sul sé in azione nel mondo e di immetterle on line, diviene naturalmente il nuovo specchio rifrangente dell’identità e il custode della sua memoria digitale. Non a caso il mezzo si carica di contenuti affettivi e diventa al contempo parte integrante ed emanazione dell’Io. M.Serra, perspicace interprete di questo cambiamento epocale, nel romanzo ironico e amaro Ognuno potrebbe (2015) definisce l’iphone con il singolare neologismo di egofononarciso (2)
Peraltro, la manegevolezza e la disponibilità dello strumento si sposano bene con la cultura visuale e con con il processo di vetrinizzazione sociale descritto da V.Codeluppi[8], tendenza che, spinta alle sue estreme conseguenze, porta ciascuno ad esporre sé stesso come una merce, pur nei diversi ambiti e contesti della propria quotidianità. Si generalizza, quindi, una sorta di narcisismo portabile, che esalta l’esteriorità a discapito dell’interiorità. Peraltro, in uno scenario culturale in cui l’immagine vince sui contenuti per l’immediatezza e per la pregnanza del suo portato emotivo, il narcisismo social si esprime soprattutto attraverso l’edulcorazione della propria corporeità, sempre più esaltata, manipolata, aggiustata, con la complicità e con le facilitazioni fornite dai sofisticati applicativi digitali. E’ noto come esistano espedienti per levigare il viso, togliere le rughe, sembrare più alti e più snelli, modificare le luci e le ombre, fino ad arrivare al limite estremo dell’irriconoscibilità dell’immagine di sé. Tuttavia, una volta conseguita (in modo più o meno fondato) una certa visibilità all’interno del social network, o perché ritenuti esperti in un ambito del sapere oppure come semplici opinion leader, è fatta salva anche per i Narcisi dell’intelligenza la possibilità di fare del proprio network un bacino di conferma ad personam e una cassa di risonanza del proprio ego, immettendo contenuti capaci di suscitare apprezzamento ed eliminando progressivamente i dissidenti. Ciò concretamente comporta il rischio di sacrificare sull’altare dei like e dei follower non solo la propria intimità (di pensieri e di emozioni oltre che di immagini) ma anche il proprio pensiero divergente, facendo di sé un prodotto che segue le regole dell’audience.  
Il rapporto tra narcisismo e la pratica dei selfie è da tempo al centro di un dibattito a più voci e ha dato vita ad una copiosa serie di riflessioni. G. Riva, evidenzia come non esista un determinismo o una causalità tra il numero dei selfie e il grado di narcisismo, ma una semplice correlazione che va letta alla luce anche di altri indicatori di disagio. “Se non è necessariamente vero che chi si fa un selfie è un narcisista, è però vero che chi è più narcisista si fa più selfie. In particolare, negli uomini i selfie sono correlati al narcisismo[9], mentre nelle donne all’oggettivazione, intesa come la tendenza a pensare e ad usare il proprio corpo come oggetto dei desideri degli altri[10]”.
Peraltro, l’autore ritiene che la pratica degli autoscatti potrebbe essere utile, soprattutto nell’adolescenza, ossia quando si sente maggiormente l’urgenza di rimandi sociali in grado di restituire un’immagine di sé, per realizzare quella dialettica tra l’Io (osservarsi dal di dentro) e il Me (osservarsi dal di fuori) propedeutica alla consapevolezza identitaria. A tal riguardo sostiene che l’individuo “attraverso l’osservazione di quello che è e di quello che fa, diventa progressivamente consapevole delle proprie caratteristiche individuali (identità personale) e della posizione che occupa all’interno della società (identità sociale)[11]”. Non mancano, peraltro, notazioni critiche rispetto ai rischi di un eccesso di sovraesposizione. Esse rimandano alla progressiva cessione di informazioni personali e alla rinuncia della propria privacy, ma anche agli effetti paradossali dei selfie. Tra questi vi è il pericolo di confondere la pars pro toto ossia di ritenere che il singolo fotogramma della presentazione personale coincida con l’intera identità del soggetto, oppure vi è il rischio concreto che altri possono fare delle immagini pubblicate dal soggetto un uso improprio. unselfie2
Le derive del narcisismo social e dell’uso compulsivo delle tecnologie digitali negli ultimi anni sono state il tema conduttore di diversi prodotti culturali. In campo musicale molti successi di pubblico hanno ben fotografato, dietro l’apparente leggerezza del brano, la mania del selfie, la dipendenza dall’iperconnessione, come anche la vacuità di un mondo centrato sull’apparenza. Saltano alla ribalta nel 2016 J-AX & Fedez con “Vorrei ma non posto”, mostrando l’amara consapevolezza che “ogni ricordo è più importante condividerlo che viverlo, e che l’iphone ha preso il posto di una parte del corpo e infatti si fa a gara a chi ce l’ha più grosso”. L’anno successivo, con tematiche simili, F.Gabbani nel suo “Occidentalis’s Karma” denuncia gli Internettologi, soci onorari al gruppo dei selfisti anonimi e i tuttologi del web, mentre L.Fragola e Arisa rivelano le carenze “dell’esercito dei selfie, di chi si abbronza con l’iPhone, ma non ha più contatti, soltanto like a un altro post (…)”. E mentre la musica fotografa ed incalza il girotondo social e i nuovi Narcisi, il cinema non è da meno. Il film The Circle (2017) di J.Ponsoldt, con Emma Watson e Tom Hanks, ha l’ambizione di affrontare lo spinoso tema della perdita della privacy in nome di un (finto) ideale di vita del tutto trasparente ed accessibile a tutti, senza tuttavia arrivare a buoni risultati di approfondimento o di critica radicale del sistema.

Ma l’azione più coraggiosa di denuncia si realizza con la serie televisiva britannica Black Mirror (trad. “Lo specchio nero”) ideata e prodotta da C.Brooker e in onda a partire dal 2011 per diverse stagioni. Con lucidità ed inquietante capacità previsionale si disegnano le possibili aberrazioni del prossimo futuro e i vari episodi mettono in guardia anche dalle conseguenze nefaste di una società che sul gradimento e sugli indici di popolarità social struttura non solo le sue relazioni, ma anche la sua stessa stratificazione sociale e perfino l’accesso alle risorse sociali e sanitarie[12].  

Un fotogramma della puntata di Black Mirror "Caduta Libera" (2016)

Un fotogramma della puntata di Black Mirror “Caduta Libera” (2016)

Come spesso succede, ad una critica acuta dei mali non segue di norma una proposta praticabile di terapia. Come contenere o curare questo dilagante narcisismo social, che poggia su un ribaltamento dell’assunto tradizionale “vedo, dunque sono”, in “sono visto, dunque esisto[13]?
Se per qualcuno, come antidoto al narcisismo occorrerebbe recuperare il codice materno sul quale si fonda il senso di fratellanza[14], per altri bisognerebbe ritornare all’insegnamento dei classici, come all’invito che Socrate muove al rampante e vanesio discepolo Alcibiade, ben descritto da Platone nell’opera che porta il nome del giovane[15]. In particolare, occorrerebbe integrare la cura  di sé (questo sarebbe in senso profondo del monito conosci tè stesso) con la cura della polis. Altri autori ancora parlano di riscoperta dell’anima[16] in un contesto culturale che tende ad adombrare le domande di senso cancellando la singolare unicità di ogni persona e la sua capacità di contatto intimo con la propria interiorità. Occorrerebbe inoltre riformulare la domanda di fondo che segna la nostra esistenza “chi sono io?”, ancorandola ad una prospettiva di relazione, “per chi sono io?”[17].

Come si evince, tutti i rimedi si muovono all’interno di un orizzonte affettivo ed educativo forte. Ne deriva che, fermo restando l’obbligo etico di ciascuno di allenare e di nutrire la propria autoconsapevolezza, quando crolla o si allenta la presa educativa, i nuovi specchi rifrangenti della contemporaneità, pur dietro la loro patina seducente ed ammaliante, rimarranno neri e capaci di omologare alle logiche del narcisismo social chi ne faccia un uso acritico seguendo l’onda lunga e travolgente della corrente.

 

[1]Grattagliano P., “Il mito di Narciso, identità senza alterità”, consultabile su http://www.psichiatrianapoli.it/articoli/92-miti-fiabe-e-leggende/94-il-mito-di-narciso-identita-senza-alterita.html
[2] Ibidem, pag. 24
[3] Secci M.E, Il narcisista secondo il DSM V, 2 luglio 2014, consultabile su http://enricomariasecci.blog.tiscali.it/2014/07/02/il-narcisista-secondo-il-dsm-v/
[4] Rodotà S., Il diritto di avere diritti, editori La Terza, 2012
[5] La citazione è tratta da Pisano L., L’identità virtuale. Teoria e tecnica dell’indagine socio-psicopedagogica on line, ed. Franco Angeli, 2016
[6] Fontana M.P., “Raccontarsi attraverso la Rete”, in SottoTraccia, Saperi e percorsi sociali, Navarra Editore, 2011, pag. 82-93
[7] Rivoltella P.C. Il volto sociale di Facebook. Rappresentazione e costruzione identitaria nella società estroflessa, In Limine, Facoltà Teologica Cagliari, n1/2010, pag. 442-456
[8] Codeluppi V., La vetrinizzazione sociale, il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, ed Bollati Boringhieri, 2007
[9] In questo contesto il narcisismo viene inteso come l’insieme di quattro caratteristiche correlate: 1) l’autosufficienza, ovvero la convinzione di poter fare a meno degli altri; 2) la vanità: il compiacimento e l’eccessivo interesse verso il proprio aspetto fisico; 3) l’autoritarismo, ossia la tendenza ad imporre la propria volontà ad altre persone e, infine, 4) la richiesta di ammirazione, ossia la tendenza a pensare che tutto sia dovuto in quanto esseri superiori.
[10] Riva G., Selfie, Narcisismo e identità, ed. Il Mulino, Bologna, 2016, pag 141
[11] Ibidem, pag. 95
[12] Vedi ad esempio la visione inquietante del futuro contenuta nell’episodio Caduta Libera della terza stagione (2016)
[13] Perniola M., “Sono visto, dunque esisto”, in La Repubblica, novembre 2005
[14] Cavalieri S., Lo Piccolo C., Ruvolo G., L’inutile fatica, soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, ed. Mimesis 2016
[15] ibidem
[16] Sequeri P., La cruna dell’ego, uscire fuori dal monoteismo del sé, ed. Vita e Pensiero, 2017

[17] ibidem

 

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Scritto daMaria Pia Fontana

3 comments to “Narcisismo social e gli specchi neri della contemporaneità”
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