di Maria Pia Fontana
La questione del senso da attribuire alla vita e ai suoi accadimenti è la questione nodale dell’esistenza. Come sostiene Marco Guzzi[1] “l’uomo è l’unico essere per il quale l’essere ha bisogno di avere un senso”. Ne deriva che siamo dei folli cercatori di senso all’interno di un universo che si modifica secondo modalità insensate ed incomprensibili.
Il senso appare quindi un tratto costitutivo della nostra umanità e sollecita un’attività creativa personale, non essendo possibile importarlo o riceverlo passivamente dagli altri. Inoltre, il senso non ha un fondamento nella logica ma nella libertà e nella responsabilità di una costruzione simbolica intrisa di contenuti valoriali ed affettivi, oltre che cognitivi. Come tutte le creazioni originali ed autonome la sua acquisizione comporta fatica. Generare senso implica sostenere le doglie del parto[2]. Essendo l’architrave che da forma ai nostri convincimenti e ai nostri saperi il senso del senso è quello di modificare la realtà, in quanto il significato che attribuiamo alle cose le plasma e le definisce orientando la nostra azione, come anche la nostra comprensione.
Nonostante questo sforzo creativo ci appartenga naturalmente ed operi spesso implicitamente, per qualcuno resta un’impresa impossibile in quanto considera l’esistenza dominata dall’assurdo e ciò espone l’uomo alla solitudine e talvolta alla disperazione. Da quando l’umanità ha rinunciato a Dio, ad un termine di riferimento ultraterreno come anche all’importanza della tradizione e dell’autorità nello stabilire la gerarchia dei valori, i nichilisti e gli scettici sono un esercito in rapida crescita che, più che vantare impavidi eroi in grado di reggere il peso della solitudine cosmica, raccoglie tra le sue fila diverse manifestazioni di disagio psicologico e relazionale.
A.Camus pensava che “l’assurdo nasce dal confronto fra la domanda dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo”. Nel Mito di Sisifo (1942) l’autore sostiene che “c’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia”. Egli ritiene l’assurdo, inteso come peccato senza Dio, la dimensione costitutiva dell’esistenza. Tutti gli sforzi che l’uomo fa sono paragonabili all’inutile impresa di Sisifo che spinge un masso fino ad un monte per poi vederlo rotolare sotto. Di fronte a questa insensatezza, tuttavia, l’individuo non deve cedere né alla disperazione del suicidio, né alla consolazione di credere nell’esistenza di un artefice intelligente del mondo, ma deve accettare i suoi limiti, l’imperscrutabilità del dolore e della morte e realizzare la sua personale rivolta all’assurdo combattendo le ingiustizie e ricercando la solidarietà con i propri simili[3].
Naturalmente è più facile identificare il senso della felicità che non quello del dolore che attraversa la vita, sebbene pure la ricerca del significato profondo del benessere non sia una cosa automatica o scontata. Se pensiamo che la felicità consista nel collezionare emozioni o esperienze, ci impegneremo a cogliere tutte le opportunità di godimento o di sovraeccitazione che la vita ci offre, mentre se crediamo che la felicità consista nel realizzare la nostra vocazione, letteralmente chiamata all’azione, cioè la ragione profonda per cui siamo venuti al mondo, cercheremo di seguire le indicazioni (o gli imperativi) del nostro daímon.
La radice etimologica di felicità deriva dalla particella “fe” dalla quale scaturiscono felix, che vuol dire appagato ma anche fecondo, fertile, e femina, come colei che genera. Una variante di “fe” è il verbo “feo”, che vuol dire allattare e che si collega a filius (colui che allattato) e infine a festa[4]. Ne deriva che l’accaparramento e la dissipazione di beni, ma anche di energie e tempo, sono condotte che allontanano molto dalla felicità, che consiste invece nel generare, nel rinnovare, nel far nascere qualcosa che prima di noi non c’era. La felicità sta, quindi, nella capacità di essere autenticamente generativi sia in senso fisico che simbolico. I processi creativi sono incentivati dalla conoscenza personale, in quanto solo la consapevolezza dei nostri talenti e attitudini ci può consentire di metterli in opera senza distruggere o dilapidare le risorse di cui disponiamo, ma valorizzando al contempo noi stessi, gli altri e il mondo[5]. L’amore, come vincita e negazione della morte, è ciò che fa esplodere la generatività.
Se riflettere sul significato profondo della felicità è relativamente semplice, enormemente più arduo è attribuire un significato al dolore, di cui tutti abbiamo esperienza pur nella diversità delle cornici simboliche di riferimento. Scrive a tal proposito S.Natoli:
“(…) Ciò che è universale è il danno, non il senso. La dimensione fisica del patire, l’essere colpiti, è un danneggiamento: sono privo della parola, sono privo della vista o di un braccio, sono privo della salute; l’integro, come possibilità di realizzazione di sé nello spazio del mondo, è danneggiato (…). Siccome vivere il dolore vuol dire trovare un senso o discutere sul suo non senso, allora la modalità dell’assegnazione di senso (…) è appunto ciò che rende diversa l’esperienza del dolore[6]”
Sebbene questa definizione faccia riferimento soprattutto al dolore fisico, possiamo dire che tutti i casi di sofferenza implicano l’esperienza di una privazione di una condizione di integrità o di desiderabilità anche di natura psicologica, affettiva e sociale. Quindi, la coscienza del dolore proprio o altrui presuppone la capacità di poter operare un confronto, anche solo immaginario, tra più termini di paragone. Secondo S.Freud (1925), il dolore nasce dalla perdita dell’oggetto primario amato e quindi, specie se di natura psichica, esprime sempre un legame, un investimento libidico. Il dolore, pertanto, si lega profondamente all’amore[7]. W.R. Bion (1962) definisce la funzione di rêverie come la particolare attitudine della madre di dare contenimento e significato ai segni del disagio del bambino, bonificando e sedando, attraverso un argine emotivo, il dolore che si esprime nel pianto o nella rabbia. Chi non ha potuto sviluppare un sistema sufficiente di contenimento e di integrazione dell’io, tale da fargli sperimentare anche il piacere, non riuscirà neppure a soffrire il dolore, cioè a sentire la sofferenza propria e altrui. Lo aveva ben compreso Eduardo De Filippo che, nella commedia Filumena Marturano (1946) fa dire alla protagonista, che era stata una bambina deprivata e un’adolescente abusata:
<< Sai quanno se chiagne? Quanno se cunosce ‘o bbene e nun se po’ avè! Ma Filumena Marturano bene nun ne cunosce…e quanno se cunosce sulo ‘o mmale nun se chiagne (…)>>[8]”.
Ne deriva che non tutti sentono il dolore con la stessa intensità nè con la stessa intensità si pongono il problema di ricercarne un senso. Quando il dolore psichico è molto elevato, si può anche arrivare ad un crollo psicotico o ad una disintegrazione dell’io.
Per S.Natoli[9] esiste una relazione intima tra la cultura e il dolore e sono identificabili due paradigmi: il dolore tragico della Grecia antica e quello barocco della tradizione ebraico-cristiana. Nel primo caso il dolore è una componente ineliminabile dell’esistenza, caratterizzata dall’eterna lotta tra forze contrapposte, per cui la sofferenza non può essere contestata o evitata e prescinde dalla colpa, nel secondo caso invece il dolore discende dal libero arbitrio e consegue al peccato originale dell’uomo, che ha incrinato il rapporto con Dio. Mentre la rappresentazione classica del dolore è composta, fredda, impersonale e collettiva, quella barocca è “isterica”, fortemente incardinata nell’esperienza del singolo che protesta l’ingiustizia del suo particolare dolore o invoca risarcimento, perdono e consolazione. Inoltre, nella concezione tragica dell’esistenza il problema è soprattutto quello di reggere il dolore ed è un’impresa che richiede doti eroiche, in quella ebraico-cristiana è piuttosto quello di resistere avendo essenzialmente un Altro come interlocutore[10].
Oggi l’approccio sociale dominante al tema delle emozioni, sia di gioia che di dolore (ma anche di paura e orrore) ha un “sapore strumentale e quindi perverso[11]”, in quanto esse vengono spesso incentivate a scopi commerciali o di audience. Inoltre, ciò che accomuna la cultura del narcisismo a quella della perversione è il rifiuto di mentalizzare la sofferenza, come anche la malattia, la vecchiaia e la morte, mentre le dipendenze patologiche, con effetti ottundenti o eccitanti, cercano di anestetizzare dal dolore di una mancanza o dall’angoscia esistenziale[12].
Esperienze biografiche, risorse personali e sociali, ma anche attitudini, valori interiorizzati e sistemi di interpretazione determinano il grado e le modalità di resilienza individuale al dolore, intesa come capacità di fronteggiare gli eventi critici, di autoripararsi dopo un danno e di attribuire al dolore un significato evolutivo.
Nella normalità dei casi, pur nella diversità individuale, la comune esperienza del dolore, ancor più della ricerca della felicità, solleva una domanda universale e cosmologica sul senso della vita e sul significato del male e ciò può sviluppare un sentimento di fratellanza a prescindere dal credo o dalle proprie convinzioni. A tal riguardo V.Andreoli evidenzia come il dolore possa contribuire a rivelare i fondamenti dell’umanità: la fragilità, il bisogno di legami e dell’aiuto degli altri, la naturale vocazione verso l’assoluto e l’esigenza di darsi una nuova gerarchia delle cose[13].
Il dolore ripropone il confronto con limite e con la fragilità ed evoca il termine definitivo dell’esistenza, cioè la morte, ma ciò non ci assicura che questo memento mori sia un monito di sicura efficacia pedagogica che consente all’uomo di ridimensionare i suoi eccessi o il male che può infliggere agli altri come a sé stesso. Dare un significato costruttivo al dolore e alla morte resta quindi “il nostro compito pedagogico più importante e faticoso. Il come ciò possa avvenire rappresenta il più grande miracolo soggettivo e creativo di ogni persona[14]”.
Il primo passo per significare il dolore è quello di trovare un linguaggio che renda esprimibile e condivisibile la sofferenza e, una volta trovato, occorre trovare qualcuno capace di ascoltarlo in modo attivo e in grado di fare spazio al vissuto dell’altro dentro di sé.[15]
Se tuttavia vogliamo alimentare la speranza di una crescita evolutiva anche attraverso la sofferenza dobbiamo aprirci al trascendente e alla dimensione spirituale, anche a prescindere dal fatto di professare qualche credo. Scriveva a tal riguardo Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-Philosophicus (1921) “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non vi è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore…” . E ancora, “il senso della vita possiamo chiamarlo Dio e pregare vuol dire pensare al senso della vita”. A tal proposito Guzzi M. sostiene che quando si arriva ai confini della logica e quando questa stessa logica vacilla, le domande di senso diventano invocazione ad un altro, diventano cioè appello accorato per trovare una spiegazione a ciò che appare inconcepibile ed incomprensibile[16].
Quindi, quando l’uomo perde la capacità di concentrazione e di contatto con la propria interiorità, depotenzia la sua capacità di intuire il senso profondo della vita e dei suoi accadimenti, e perde anche la possibilità di afferrare il profilo e il nucleo intimo della sua identità. Riscoprire e valorizzare le pratiche di meditazione e di preghiera, ma anche di dialogo interiore, appare benefico non solo per la salute psicofisica, come peraltro dimostrato scientificamente da qualche recente studio, ma potrebbe fungere da antidoto per le fughe di senso. La cura di sé, della propria interiorità come del proprio spazio relazionale, è l’unica strategia per significare ciò che lasciato al non senso potrebbe distruggerci e per trovare, pur attraverso il dolore, una via impervia verso un’inedita ed insospettabile felicità.
[1] Guzzi Marco, conferenza nell’ambito del convegno “Ascoltare il dolore. Una sfida per affrontarlo”, organizzato da Quavio, associazione di volontariato per l’assistenza domiciliare gratuita in oncologia. Siena 30 ottobre 2015, per la quale si rimanda al link https://www.youtube.com/watch?v=2_F3RQ1gJOE
[4] Natoli S., Educarsi ad essere felici, se la felicità è grazia ma anche progetto, in Animazione Sociale, n. 307, 2/2017, pag. 3-12
[6] Natoli S., “Giobbe, lo scandalo del dolore”, in Cattedra dei non credenti, di Carlo Maria Martini (a cura di), Rusconi, Milano, 1992, pag. 35-51
[7] Lupinacci M. A., Biondo D., Accetti L., Galeota M., Lucattini A., Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico, ed. Astrolabio, 2015
[8] Esempio tratto da Lupinacci M.A ed altri, op. cit. pag. 19
[9] Natoli S., L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano, 1986
[10] Natoli S. “Lo scandalo del dolore”, op. cit.
[11] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Ascoltare le emozioni per aiutare ed aiutarsi, ed. Gruppo Abele, Torino, 2012, pag.34
[13] Andreoli V., Capire il dolore, perché la sofferenza lasci spazio alla gioia, ed. Rizzoli, 2003, pag.67
[15] Guzzi Marco, conferenza nell’ambito del convegno “Ascoltare il dolore. Una sfida per affrontarlo”, Siena 30 ottobre 2015
[16] Guzzi Marco, ibidem
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Riflessione assai impegnativa,complessa e di notevole”” bellezza” intellettuale;
“il senso non ha un fondamento nella logica ma nella libertà e nella responsabilità di una costruzione simbolica intrisa di contenuti valoriali ed affettivi, oltre che cognitivi.” e il “ senso tratto costitutivo di umanità” e generatore di attività creativa personale,mi sembrano due pensieri fondamentali,specie quella premessa assai importante dell edificazione di “ Simboli” nel senso più alto del termine che possano costituire “ gli indicatori” del nostro percorso vitale ;questo tratto costituivo non per nulla decade e muore con la mancanza di quella “costruzione simbolica “ valoriale ..
La percezione dolorosa dell’assurdità dell’esistenza in mancanza di questa azione generazionale creativa è il campo sterminato più reale e drammatico nel quale si smarrisce ,assieme al senso del dolore ,anche quello della felicità ; in un percorso di solitudine propriamente intesa come privazione dei tratti comuni e condivisi della nostra umanità,sia con gli uomini che con il “mondo”
Trovo anche particolarmente efficace e bello il concetto ricavato da Freud del dolore come “perdita del bene primario” e del suo profondo legame con l’amore ed è altrettanto bella – se non ancora di più – l’ evidenza del pensiero di Vittorino Andreoli sulla capacita del dolore di “ rivelare i fondamenti dell’umanità” – o di ricostruirli ,dico io – anche in ragione di quella “resilienza individuale”virtuosa verso di esso .
Sulla necessità di “aprirci al trascendente e alla dimensione spirituale”,infine,che si chiami o meno Dio,per alimentare la speranza di “crescita evolutiva” anche dall’esperienza della sofferenza,non credo a mio parere che possano esserci valide alternative che siano in grado di dare soluzione possibile alla “ domanda dell’uomo e all’irragionevole silenzio del mondo” di cui parla Camus nella citazione ( io vi aggiungerei anche “ Lo straniero”..).